DISCORSO DI SUA SANTITÀ PIO XII AI PARTECIPANTI AL PRIMO CONGRESSO NAZIONALE DELL’UNIONE GIURISTI CATTOLICI ITALIANI*
Domenica, 6 novembre 1949
Con felice pensiero, diletti figli, ad altre città d’Italia che avrebbero potuto degnamente accogliervi, avete preferito Roma come sede del primo Congresso nazionale della « Unione Giuristi Cattolici Italiani », alla quale in questi giorni avete dato la forma definitiva e la costituzione interna, discutendone e approvandone lo Statuto ed eleggendone la Presidenza, che, secondo le norme fondamentali tra voi concordate, dovrà promuoverne lo sviluppo e guidarne l’attività. Mentre pertanto Ci congratuliamo con voi del lavoro compiuto, non possiamo non rilevare come sia stato vostro desiderio e vostra cura, da veri e genuini giuristi cattolici, di cingere la culla della vostra Associazione di una duplice aureola, l’una che si irradia dalla eterna Roma, l’altra che corrisponde alla denominazione di cui vi fregiate.
Voi infatti siete, in primo luogo, giuristi, cultori di quella nobile fra le scienze che studia, regola ed applica le norme, sulle quali si fondano l’ordine e la pace, la giustizia e la sicurezza nella convivenza civile degli individui, delle società e delle nazioni; e Roma ha il vanto di essere la gran madre del diritto. Se altri popoli nell’antichità andarono gloriosi per lo splendore delle arti, per l’altezza della speculazione filosofica, per la raffinatezza della coltura, il popolo romano non fu secondo ad alcuno per il profondo senso del diritto, per la costruzione di quei mirabili istituti giuridici, coi quali unificò il mondo allora conosciuto, lasciando dietro di sè una tradizione che ha resistito al morso edace del tempo.
Ma voi, oltre ad essere giuristi, siete e vi professate giuristi cattolici; e Roma è per disposizione divina il faro sempre splendente della fede di Cristo, il centro della unità visibile della Chiesa, la sede del supremo magistero delle anime, dove la cattolicità presenta particolare forza e grandezza, e si rende più tangibile che in qualsiasi altro paese del mondo, per l’affluire di tutte le genti al luogo della cattedra e del sepolcro di Pietro. Travolto l’Impero dei Cesari sotto la irrompente avanzata dei popoli che premevano ai suoi confini, due cose sopravvissero alla decadenza della più grande e più augusta città che la storia ricordi: l’una, cioè, il suo Corpus iuris, divenuto il diritto di tutta l’Europa civile, ancora vigente in molte sue parti nelle istituzioni contemporanee, ancora oggetto di studio appassionato, come tronco vivo, la cui linfa non si essiccò col volgere degli anni, ancora dotato di quella potenza unificatrice, che spiegò nel suo lento processo formativo; e l’altra, la nuova fede, che Pietro e Paolo vi portarono, il nuovo trono di verità, che il primo Capo visibile della Chiesa, da Cristo direttamente eletto e investito del potere delle somme Chiavi, vi piantò stabilmente, eleggendo l’Urbe a sua sede. I secoli sono passati, inchinandosi dinanzi al suo granitico blocco, senza scalfirlo; le vicende si sono addensate per scuoterlo ed abbatterlo, ma invano; e voi lo vedete ancora saldo ed integro, elevato sulle genti come segno visibile della perennità dell’opera di Cristo.
Fu così che in Roma, e nel mondo già fermentato dalla sua civiltà, le due realtà più vitali, — l’una, frutto della sapienza giuridica di un popolo, e quindi di origine umana; l’altra, irradiamento dal mondo della rivelazione, annunziata dal Figlio di Dio fatto uomo, e quindi di origine trascendente e divina, —s’incontrarono e si fusero con intimo legame, per cui il diritto di Roma, penetrato della nuova luce che emanava dal messaggio cristiano, gradualmente si trasformò nello spirito, si elevò nelle concezioni, si perfezionò in molti dei suoi istituti, si arricchì nelle sue disposizioni, accogliendo progressivamente i principi, le idee, le esigenze superiori della nuova dottrina. L’opera legislativa degli Imperatori cristiani nacque da questo fecondo connubio di saggezza umana e di sapienza divina, del quale restano tracce indelebili, tali da dimostrare al mondo moderno come tra la vera scienza giuridica e l’insegnamento della fede cristiana non vi è opposizione ma concordanza, perchè la fede non può non sigillare del suo stampo la verità, che la mente umana scopre, considera ed ordina.
Perciò abbiamo detto che un opportuno consiglio vi ha guidati a scegliere Roma come sede del vostro primo Congresso. Ma al tempo stesso questa scelta vi dice quanto nobile ed alta è la vostra professione e quali esigenze nel suo esercizio la qualifica particolare, di cui vi gloriate, impone ad ognuno di voi.
La nobiltà della vostra professione è stata magnificamente descritta da Ulpiano, che definiva la giurisprudenza « divinarum atque humanarum rerum notitia, iusti atque iniusti scientia » (1. 10 D., I, I). Quale nobile oggetto egli assegna in questa definizione alla scienza giuridica, e quanto alto la eleva sopra altri rami del sapere umano! Lo sguardo del giurista degno di questo nome spazia sopra un larghissimo orizzonte, la cui ampiezza e varietà viene significata dalle cose stesse, alle quali egli deve volgere la sua attenzione ed il suo studio. Egli ha da conoscere, innanzi tutto, le cose divine, divinarum rerum notitia, non solo perchè nella vita umana sociale la religione deve avere il primo posto e dirigere la condotta pratica del credente, alla quale anche il diritto dovrà dettare le sue norme; non solo perchè alcuni dei principali istituti, come quello del matrimonio, hanno un carattere sacro, che il diritto non può ignorare; ma soprattutto perchè senza questa superiore cognizione delle cose divine il panorama umano, che è il secondo e più immediato oggetto, humanarum rerum notitia, su cui deve posarsi la mente del giurista, rimarrebbe privo di quel fondamento che supera ogni umana vicissitudine nel tempo e nello spazio e riposa nell’assoluto, in Dio.
Senza dubbio il giurista non è chiamato dalla sua professione a dedicarsi alla speculazione teologica per conoscere l’oggetto del suo studio; ma se egli non sa innalzarsi alla visione della realtà somma e trascendente, dalla cui volontà deriva l’ordine dell’universo visibile e di quella piccola sua parte che è il genere umano con le sue leggi immanenti e moralmente necessarie, gli sarà impossibile di vedere in tutta la sua mirabile unità e nelle sue più intime profondità spirituali l’intreccio delle relazioni sociali, cui il diritto presiede, e le loro norme regolatrici. Se, come affermava il grande giureconsulto e oratore romano, « natura iuris… ab hominis repetenda (est) natura » (Cicer. De legibus, l. I cap. 5 § 17), la natura o l’essenza del diritto non può essere derivata se non dalla natura stessa dell’uomo; e poichè, d’altra parte, questa natura non può essere conosciuta, nemmeno approssimativamente, nella sua perfezione, dignità ed elevatezza e nei fini che ne comandano e subordinano a sè le azioni, senza la connessione ontologica, dalla quale è legata alla sua causa trascendente, è chiaro che al giurista non sarà possibile di conquistare un sano concetto del diritto, nè di conseguire un suo sistematico ordinamento, se non rinunziando a vedere l’uomo e le cose umane fuori della luce, che piove dalla divinità a rischiarargli il cammino faticoso della sua indagine.
L’errore del razionalismo moderno è consistito appunto nella pretesa di voler costruire il sistema dei diritti umani e la teoria generale del diritto, considerando la natura dell’uomo come un ente per sè stante, al quale manchi qualsiasi necessario riferimento ad un Essere superiore, dalla cui volontà creatrice e ordinatrice dipende nell’essenza e nell’azione. Voi conoscete in quale dedalo inestricabile di difficoltà il pensiero giuridico contemporaneo si è trovato impigliato a causa di questa deviazione iniziale, e come il giurista, che si è conformato al canone stabilito dal cosiddetto positivismo, abbia mancato all’opera sua, perdendo, con la retta cognizione della natura umana, la sana concezione del diritto, al quale è venuta meno quella forza coattiva sulla coscienza dell’uomo, che è il suo primo e principale effetto. Le cose divine ed umane, che secondo la definizione di Ulpiano formano l’oggetto più generale della giurisprudenza, sono così intimamente congiunte, che non si possono ignorare le prime, senza perdere la esatta valutazione delle seconde.
Ciò è tanto più vero, in quanto l’oggetto più specifico della scienza giuridica è il giusto e l’ingiusto, iusti atque iniusti scientia, ossia è la giustizia, nella sua alta funzione equilibratrice delle esigenze individuali e sociali nel seno della famiglia umana. La giustizia non è soltanto un concetto astratto, un ideale esterno, al quale debbono cercare di adeguarsi le istituzioni, per quanto è possibile in un dato momento storico, ma è anche e soprattutto qualche cosa di immanente all’uomo, alla società, alle sue istituzioni fondamentali, a causa di quella somma di principi pratici che essa detta ed impone, di quelle norme di condotta più universali, che fanno parte dell’ordine obbiettivo umano e civile, stabilito dalla mente altissima del primo Fattore. La scienza del giusto e dell’ingiusto suppone dunque una più elevata sapienza, la quale consiste nel conoscere l’ordine del creato e conseguentemente il suo Ordinatore. Il diritto, come insegnava l’Aquinate, est obiectum iustitiae (S. Th. II II p. q. 57 a. I), è la norma in cui si concreta e si attua la grande e feconda idea della giustizia, e come tale, se conduce a Dio, eterna e immutabile giustizia nella sua essenza, da Dio riceve luce e chiarezza, vigore e forza, senso e contenuto.
Il giurista si muove dunque nell’esercizio della sua professione tra l’infinito e il finito, tra il divino e l’umano, e in questo movimento necessario consiste la nobiltà della scienza che egli coltiva. Gli altri titoli, in virtù dei quali egli si nobilita dinanzi al consorzio umano, si possono riguardare come conseguenza di quello già accennato. Se l’oggetto della sua indagine sono le norme giuridiche, il soggetto, a cui queste sono destinate, è l’uomo, la, persona umana, la quale viene così a cadere nel campo delle sue competenze. E, si noti, non l’uomo nella sua parte inferiore e meno nobile, che viene studiata da altre scienze anch’esse utili e degne di ammirazione, ma l’uomo nella sua parte superiore, nella sua proprietà specifica di agente razionale che, per conformarsi alle leggi della sua razionalità, deve operare guidato da alcune norme di condotta, o direttamente dettategli dalla sua coscienza, riflesso e araldo di una più alta legge, o prescrittegli dall’autorità umana regolatrice della vita associata. È vero che sotto lo sguardo del giurista l’uomo non si presenta sempre negli aspetti più elevati della sua natura razionale, ma spesso offre al suo studio i lati meno pregevoli, le sue cattive inclinazioni, le sue malvagie perversità, la colpa e il delitto; tuttavia anche sotto l’offuscato splendore della sua razionalità, il vero giurista deve veder sempre quel fondo umano, dal quale la colpa e il delitto non è mai che cancellino il sigillo impressovi dalla mano del Creatore.
Se poi voi riguardate il soggetto del diritto con l’occhio della fede cristiana, quale corona di luce scorgerete intorno al suo’ capo, quella corona di cui l’ha circondato la redenzione di Cristo, il sangue sparso per il suo riscatto, la vita soprannaturale, alla quale l’ha restituito e della quale l’ha fatto partecipe, e il fine ultimo assegnatogli come termine del suo cammino terreno. Nella nuova economia il soggetto del diritto non è l’uomo nella pura natura, ma l’uomo elevato dalla grazia del Salvatore all’ordine soprannaturale, e per ciò stesso messo a contatto con la divinità mediante una nuova vita, che è la stessa vita di Dio, sebbene partecipata. La sua dignità cresce dunque di proporzioni infinite, e quindi di eguale proporzione aumenta la nobiltà del giurista, che ne fa oggetto della sua scienza.
Gl’insolubili contrasti tra l’alto concetto dell’uomo e del diritto secondo i principi cristiani, che abbiamo cercato di esporre brevemente, e il positivismo giuridico possono essere nella vita professionale fonti d’intima amarezza. Noi ben conosciamo, diletti figli, come non di rado nell’animo del giurista cattolico, che voglia tener fede alla concezione cristiana del diritto, sorgono conflitti di coscienza, particolarmente quando egli si trova nella condizione di dover applicare una legge, che la coscienza stessa condanna come ingiusta. Grazie a Dio, il vostro dovere è qui notevolmente alleggerito già per il fatto che in Italia il divorzio (causa di tante interiori angustie anche per il magistrato che deve eseguire la legge) non ha diritto di cittadinanza. In realtà però dalla fine del secolo decimottavo si sono — specialmente nelle regioni ove infieriva la persecuzione, contro la Chiesa — moltiplicati i casi, in cui i magistrati cattolici sono venuti a trovarsi dinanzi all’angoscioso problema dell’applicazione di leggi ingiuste. Perciò cogliamo l’occasione di questa vostra riunione intorno a Noi, per illuminare la coscienza dei giuristi cattolici mediante la enunciazione di alcune norme fondamentali.
1° Per ogni sentenza vale il principio che il giudice non può puramente e semplicemente respingere da sè la responsabilità della sua decisione, per farla ricadere tutta sulla legge e sui suoi autori. Certamente sono questi i principali responsabili degli effetti della legge medesima. Ma il giudice, che con la sua sentenza l’applica al caso particolare, è concausa, e quindi corresponsabile di quegli effetti.
2° Il giudice non può mai con la sua decisione obbligare alcuno a qualche atto intrinsecamente immorale, vale a dire per sua natura contrario alla legge di Dio o della Chiesa.
3° Egli non può in nessun caso espressamente riconoscere e approvare la legge ingiusta (la quale, del resto, non costituirebbe mai il fondamento di un giudizio valido in coscienza e dinanzi a Dio). Perciò egli non può pronunziare una sentenza penale, che equivalga a una simile approvazione. La sua responsabilità sarebbe anche più grave, se la sua sentenza cagionasse scandalo pubblico.
4° Tuttavia non ogni applicazione di una legge ingiusta equivale al suo riconoscimento o alla sua approvazione. In questo caso, il giudice può — talvolta forse deve — lasciar fare il suo corso alla legge ingiusta, qualora sia il solo mezzo per impedire un male molto maggiore. Egli può infliggere una pena per la trasgressione di una legge iniqua, se essa è di tal sorta che colui, il quale ne è colpito, è ragionevolmente disposto a subirla per evitare quel danno o per assicurare un bene di assai più alta importanza, e se il giudice sa o può prudentemente supporre che tale sanzione sarà dal trasgressore, per motivi superiori, volentieri accettata. Nei tempi di persecuzione, spesso sacerdoti e laici si sono lasciati condannare, senza opporre resistenza, anche da magistrati cattolici, a multe o a privazione della libertà personale per infrazione di leggi ingiuste, quando in tal guisa era possibile di conservare al popolo una magistratura onesta e di stornare dalla Chiesa e dai fedeli ben più temibili calamità.
Naturalmente, quanto più grave di conseguenze è la sentenza giudiziaria, tanto più importante e generale deve anche essere il bene da tutelarsi o il danno da evitarsi. Vi sono però casi in cui l’idea del compenso mediante il conseguimento di beni superiori o l’allontanamento di mali maggiori non può avere applicazione, come nella condanna a morte. In particolare, il giudice cattolico non potrà pronunziare, se non per motivi di grande momento, una sentenza di divorzio civile (ov’esso vige) per un matrimonio valido dinanzi a Dio ed alla Chiesa. Egli non deve dimenticare che tale sentenza praticamente non viene a toccare soltanto gli effetti civili, ma in realtà conduce piuttosto a far considerare erroneamente il vincolo attuale come rotto e il nuovo come valido e obbligante.
A voi, diletti figli, auguriamo perciò di gran cuore che la divina Provvidenza vi conceda di poter esercitare il vostro ufficio sempre nell’ambito di una legislazione giusta e conforme alle legittime esigenze sociali. Adoperatevi in ogni modo ad attuare in voi l’ideale perfetto del giurista, che per la sua competenza, per la sua saggezza, per la sua coscienza, per la sua rettitudine, merita e si concilia la stima e la fiducia di tutti.
Con tale voto, e in pegno dei più abbondanti favori divini, impartiamo con paterna benevolenza a voi, non meno che alla vostra nascente e già così promettente Associazione, la Nostra Apostolica Benedizione.
*Discorsi e Radiomessaggi di Sua Santità Pio XII, XI,
Undecimo anno di Pontificato, 2 marzo 1949 – 1° marzo 1950, pp. 259-265
Tipografia Poliglotta Vaticana